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La notizia dell’operaio dell’ex Ilva licenziato per un post Facebook è diventata un caso mediatico.
Sui giornali viene riportato il contenuto del post del lavoratore, reo di aver condiviso un contenuto presente in rete.
Il lavoratore, mentre stava sul divano, ha condiviso su Facebook un testo (condiviso anche da altri colleghi) in cui si consigliava di vedere una serie TV che, senza espliciti richiami, raccontava la lotta di una mamma che denuncia l’inquinamento di una fabbrica siderurgica, ritenendola responsabile della leucemia di sua figlia.
Serie TV non esplicita, ma di rimando alla cronaca più nera di Taranto.
Nel presente articolo si richiamano alcuni dei casi più noti di licenziamento per un post sui social, come confermati dalla Cassazione.
Lo scopo di questo articolo è quello di fornire dei riferimenti utili a comprendere i limiti legati al diritto alla critica del lavoratore.
Indice
L’art. 21 della Costituzione prevede espressamente che
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
In ambito lavorativo, tale libertà di critica è espressamente prevista dall’art. 1 della L. n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori):
i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.
Di conseguenza, il diritto alla critica è un diritto costituzionalmente garantito e, per tale ragione, va tutelato. Tuttavia, tale diritto alla critica deve manifestarsi con modalità non contrarie ai canoni di buona fede e correttezza e nel rispetto delle regole della fedeltà aziendale di cui all’art. 2105 cod. civ.
Pertanto, chiarito il valore costituzionale del diritto alla critica del lavoratore, bisogna ora chiedersi quando tale diritto non travalichi in una condotta idonea al licenziamento.
Secondo la Cassazione il diritto alla critica può essere esercitato anche nei confronti del datore di lavoro a condizione però che:
In altri termini, il diritto di critica deve rispettare i principi di
In merito, diverse pronunce della Cassazione hanno chiarito come, nella valutazione del legittimo esercizio del diritto di critica, il requisito della forma può essere attenuato.
Invero, la necessità di esprimere le proprie opinioni e la propria personale interpretazione dei fatti, si riconosce un certo grado di libertà nella forma.
Una corretta critica può infatti avvenire anche con espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite [2].
Vediamo ora come questi principi hanno trovato applicazione pratica.
[1] Cass. civ. Sez. lavoro, 18/07/2017, n. 17735
[2] Cass. 22/1/1996 n. 465 nonché Cass. 2/6/1997 n. 5947
Un gruppo di operai della Fiat inscenavano il finto suicidio dell’allora amministratore delegato Sergio Marchione.
Tale rappresentazione scenica interveniva nell’ambito di una protesta sindacale, tanto davanti al fabbricato aziendale quanto all’ingresso della sede regionale della Rai.
Dopo una prima vittoria in Tribunale, con reintegra nel posto di lavoro, gli operai hanno però poi perso il posto di lavoro.
Nello specifico, la rappresentazione scenica aveva ad oggetto una funesta riproduzione del suicidio di Marchionne, con tanto di impiccagione su un patibolo, foto dell’ex A.D. e tute da lavoro insanguinate.
Secondo la Cassazione[1], con tale rappresentazione scenica si attribuivano all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio. In tal modo si travalicavano i limiti della continenza formale ed il sempre presente limite della tutela della persona umana.
Tale critica aveva così superato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra su un piano di non ritorno evocativo uno scontro violento e sanguinario.
[1] Cass. Civ., Sez. Lav. n. 14527 del 6 giugno 2018
Seppur ancora oggi non vi sia uniformità di vedute (e di decisioni) sulla manifestazione sui social del diritto di critica dei lavoratori, va detto che in molte pronunce i social hanno costituito una vera e propria aggravante.
Tale condotta, infatti, va a ledere la fiducia che l’azienda ripone nei propri dipendenti in quanto, come specificato dalla Corte di Cassazione:
La gravità del fatto risiede, nel caso di specie, sia nell’offesa in sé, sia (soprattutto) nella dimensione pubblica (e potenzialmente indeterminata) della stessa insita nella modalità di diffusione – immediata e per lo più indiscriminata – di ogni messaggio postato sui social network.
Cass. Civ., sezione lavoro, ordinanza 12/11/2018 n° 28878
Nella descritta evoluzione giurisprudenziale si verifica la continua ricerca di un bilanciamento degli interessi. Da un lato la libera formazione ed espressione del pensiero e dall’altro lato l’interesse del datore di lavoro leso da tale manifestazione.
Da tali elementi è possibile desumere un dato certo: a manifestare la propria critica (costituzionalmente garantita) nei confronti del datore, si assume sempre un certo grado di rischio lavorativo. Si può dunque incorrere anche nel rischio di essere licenziati per un post Facebook.
Pertanto, tenendo a mente gli insegnamenti della Suprema Corte, l’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore deve:
Altrimenti, la critica potrà essere valutata quale violazione del dovere di fedeltà a cui tutti i lavoratori sono tenuti al rispetto, come previsto dall’art. 2105 cod. civ.
Violazione del dovere di fedeltà che – è bene ricordare – è comportamento idoneo a ledere definitivamente il rapporto di fiducia e che può giustificare il licenziamento del lavoratore[1].
Il diritto alla critica è costituzionalmente garantito e non può subire ingiuste limitazioni, ma la forma che si sceglie per esercitare tale diritto può portare alla violazione del dovere di fedeltà.
[1] Cass. civ. Sez. lavoro, 29/11/2016, n. 24260
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Avvertenze
Il presente articolo ha il solo scopo di fornire informazioni di carattere generale sulle ultime novità normative e giurisprudenziali relative ai temi trattatati dallo Studio Legale. Di conseguenza, non costituisce un parere legale né può in alcun modo considerarsi come sostitutiva di una specifica consulenza legale.
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