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È ormai abitudine diffusa, in un mondo governato dagli smartphone, quella di conversare attraverso gli strumenti informatici da questi supportati e, più in particolare, attraverso l’utilizzo delle chat offerte da applicazioni come Whatsapp.
Ebbene, in tale contesto, che valore possono acquisire gli scambi di opinioni, di informazioni, di documenti nonché le discussioni incardinati/e nelle chat di Whatsapp?
Inevitabile era che una simile questione arrivasse al vaglio della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, tanto in ambito civile quanto in ambito penale, con spunti di riflessione tra loro connessi.
Sommario
L’articolo 2712 del Codice Civile dispone che “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
È alla luce di tale norma che deve leggersi la questione affrontata dal Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, con sentenza del 24 ottobre 2017, accogliendo il ricorso di una lavoratrice licenziata per presunte conversazioni gravemente lesive del patrimonio e dell’attività aziendale, intrattenute nella chat di Whatsapp (e di Hangout) con delle colleghe.
In tali conversazioni, sosteneva il datore di lavoro, la lavoratrice avrebbe manifestato un atteggiamento di astio e derisione nei confronti dell’azienda.
Ciò che il Tribunale di Milano ha evidenziato è stato che la lavoratrice avesse contestato e formalmente disconosciuto le presunte conversazioni richiamate da parte datoriale la quale non aveva, di contro, assolto il proprio onere probatorio per non aver prodotto i supporti informatici contenenti le contestate conversazioni.
Il tutto con la conseguenza che non fosse “possibile verificare giudizialmente la corrispondenza della documentazione prodotta rispetto agli effettivi contenuti a mezzo di consulenza tecnica, né supplire attraverso un ordine di produzione che, in considerazione delle preclusioni processuali, avrebbe natura esplorativa e surrogatoria di oneri processuali di parte inassolti”.
In un simile contesto, il Tribunale di Milano ha ritenuto inutilizzabile la documentazione prodotta dal datore di lavoro nonché, conseguentemente, assente una congrua prova in ordine alla commissione del fatto disciplinarmente ascritto ed alla base del licenziamento irrogato, così “ricorrendo […] gli estremi dell’insussistenza del fatto disciplinarmente ascritto”.
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L’articolo 234 del Codice di Procedura Penale, al primo comma, prevede che sia “consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.
Emerge un chiaro parallelismo con le previsioni del Codice Civile nonché con l’interpretazione delle stesse offerta dalla giurisprudenza, come si evince dall’iter logico-giuridico seguito dalla V Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza n. 49016/2017.
Invero, in tale sentenza la Suprema Corte ha evidenziato il principio secondo cui la mera trascrizione delle conversazioni tenutesi nelle chat dell’applicazione Whatsapp non possa essere acquisita al processo in quanto l’utilizzabilità della stessa è “condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale”.
Corte di Cassazione – V Sezione Penale – Sentenza n. 49016/2017
Pertanto, pur costituendo la trascrizione delle chat di Whatsapp una forma di “memorizzazione di un fatto storico” di cui poter disporre ai fini probatori, per valutarne l’affidabilità e l’attendibilità all’interno di un processo (nonché la reale paternità del contenuto), occorre esaminare il supporto informatico da cui tale trascrizione è stata estratta.
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